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mercoledì 9 novembre 2016

Il costo dell'ignoranza, ovvero Benvenuti nell'antico regime

Off-topic? Forse che sì, forse che no.
Si può dire che il titolo del libro di Virginia Carini Dainotti, La biblioteca pubblica istituto della democrazia, sia tendenzioso e parziale, ma un qualche rapporto tra informazione e democrazia c'è e c'è sempre stato, e un qualche rapporto tra biblioteche pubbliche e cittadini informati e che ragionano (direi più istruiti che informati) c'è pure, non lo si può negare.
Perciò, il referendum britannico (Brexit) e le elezioni presidenziali americane, che riguardano le due "patrie" delle biblioteche pubbliche moderne, non sono tanto off-topic.

Intanto, notiamo che per l'ennesima volta negli ultimi vent'anni (l'ho ricordato nel contributo per il libro di onore di Giovanni Solimine che è andato in stampa qualche giorno fa), vince la parte di un paese più arretrata, meno istruita, più isolata dalle città, meno legata al resto del mondo. E perdono le città, i ceti istruiti, i lavoratori intellettuali, oltre alle donne, alle minoranze etniche, alle classi popolari. Fatto nuovo?

No, non è un fatto nuovo, anzi è l'ennesima volta: uno degli esempi che facevo in quel contributo sono proprio le presidenziali americane (almeno da Al Gore vincitore-perdente contro George Bush, nel 2000: potete riguardare su Wikipedia anche il totale dei voti e la cartina degli Stati vinti e persi).
Altra favoletta che è inutile ripetere, è quella secondo cui i fenomeni vengono dall'America a noi, con un tot di anni di ritardo: l'Italia Berlusconi l'ha avuto vent'anni prima della sua brutta copia americana. La Francia ha avuto il suo ballottaggio Chirac-Le Pen (padre) nel 2002.

I dati elettorali di stanotte sembrano chiarissimi nel mostrare che i democratici hanno perso quasi tutti gli stati industriali (il Michigan di Detroit, capitale storica dell'auto, e Wisconsin, Ohio, Pennsylvania), che fino alle ultime elezioni, con Obama, tenevano. (Hanno perso, ovviamente, anche negli stati rurali in cui perdono da decenni: questo andava nel conto).

Però di classi sociali non si deve parlare, erano solo una fissazione di quel cane morto di Carlo Marx. Roba dell'Ottocento. Oggi bisogna baloccarsi con i nativi digitali e stupidaggini simili.
Quello che va succedendo ormai da molti anni, non solo in America ma lì in maniera particolarmente vistosa, è la decimazione della classe media, insieme alla concentrazione della ricchezza (che forse oggi è al più alto livello di sempre) e al peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Che la tendenziale scomparsa della classe media sia il fenomeno più preoccupante dal punto di vista politico e non solo economico, Prodi lo spiega da anni. Sull'entità e la durata del fenomeno di decimazione della classe media americana c'è pure un rapporto, preoccupato, del Fondo Monetario. Pochi posti di lavoro qualificati e ben pagati, tanti lavori dequalificati, precari e mal pagati, e in mezzo si va creando il deserto.

Come mai, possiamo domandarci, la parte più arretrata e ignorante di un paese è egemone? Da dove viene l'egemonia dell'ignoranza (e quindi anche del razzismo, della misoginia, della violenza, e così via: tutti fenomeni strettamente associati fra loro)?

Intanto, si potrebbe forse dire che questa egemonia non c'è mica davvero: Trump è miliardario e vive a Manhattan, NY (anche se ci prende pochi voti), e uno studio recente (ma ovviamente anteriore alle elezioni di ieri) ci informa che più della metà dei membri del Congresso americano è costituita da miliardari (Ronald P. Formisano, Le diseguaglianze dopo Obama, «Il Mulino», 2016, n. 4, p. 684-693, a p. 687).
Semplicemente, la parte più arretrata e ignorante di un paese vota nella direzione che conviene alla piccolissima minoranza che detiene la grande maggioranza delle risorse finanziarie e patrimoniali, e che è, quella sì, egemone.
Questo non è un fatto tanto nuovo, anzi piuttosto vecchio: c'è stata la Vandea, il sanfedismo, e così via.
Un fatto nuovo, semmai, è stato, per qualche tempo nell'Otto e Novecento, che le classi subalterne siano state meno subalterne, si siano organizzate, e abbiano ottenuto qualche risultato (nella legislazione sul lavoro, nella legislazione sociale, nei diritti e nei contratti, ecc.) che non abbiamo ancora del tutto perso.

I conti di Brexit vengono già pagati al supermercato, col rincaro dei generi di consumo, soprattutto alimentari (cosa che, ovviamente, riguarda gran parte degli elettori pro-Brexit, ma non i pochi che dalla svalutazione della sterlina ci guadagnano).

Le minoranze americane, che a quanto pare non si sono abbastanza preoccupate di andare a votare, pagheranno i costi di aver perso.
La working class, che ha votato Trump, pagherà invece i costi di aver vinto: con meno tasse per i super-ricchi e meno servizi sociali, istruzione pubblica, sanità, per loro (oltre che meno diritti dei lavoratori, ovviamente: p.es. niente aumenti - su cui i democratici si erano impegnati - del salario minimo legale, che negli USA è molto più basso che in Europa, così come sono maggiori gli orari di lavoro permessi).
(Con questo non voglio dire che in Europa siano rose e fiori: in Italia si lavora spesso più dell'orario contrattuale e si viene spesso pagati di meno del contratto, ma almeno si tratta di fatti illeciti, che comportano un certo rischio per le imprese che si comportano così).
Come è stato ripetuto ormai tante volte, i costi dell'ignoranza li paghiamo tutti, non solo gli ignoranti. Pagheremo, perciò, anche il degrado degli Stati Uniti, che va avanti allegramente da tempo, e su cui Obama (che la società la conosceva davvero, ci aveva lavorato dentro, ed è riuscito a fare campagne efficaci proprio perché la conosceva) è riuscito a fare pochissimo. Un degrado sociale particolarmente colorito di revanscismo, e per questo particolarmente pericoloso.
Era meglio accorgersene prima, e - come al solito - non era difficile.

Per chi ancora è attaccato al mito americano, come fosse un Pavese sopravvissuto, aggiungo qualche dato.

Gli USA sono il 10° paese del mondo per PIL pro capite (preceduti, in Europa, da Lussemburgo, Norvegia, San Marino e Svizzera, quasi alla pari con l'Irlanda, e seguiti a non molta distanza da Paesi Bassi, Svezia, Austria, Germania, Islanda e Danimarca; ci sarebbe probabilmente anche l'Italia, se non avesse un "nero" insondabile anche per la migliore buona volontà statistica).
Non è una prestazione particolarmente notevole. Lo è ancora meno se consideriamo qualche altro dato.
Gli Stati Uniti hanno una densità (e quindi un costo dei suoli e dello spazio, e perciò della produzione e della vita) molto inferiore a quella tipica in Europa: quasi 1/4 della densità media dell'Unione Europea, quasi 1/7 della densità dell'Italia.
Gli Stati Uniti sono anche il terzo paese produttore di petrolio al mondo (in Europa, ci sono solo la Norvegia al 14° posto e la Gran Bretagna al 19°).
E sono il secondo paese produttore di gas naturale (quasi pari alla Russia, mentre in Europa l'unico produttore significativo, molto più indietro in classifica, è la Norvegia).
E sono al secondo posto nel mondo per l'estrazione del carbone (dietro la Cina).
E sono anche l'ottavo paese produttore di ferro e di uranio (ma tra quelli che lo precedono, nelle due classifiche, non ci sono paesi europei).
Non continuo, ma chiunque può trovare questi dati, e altri, in Wikipedia.
Quando sono andato a scuola, per i diversi paesi, all'ora di geografia, si insegnava se erano ricchi di risorse naturali (forse oggi si pensa che siano illimitate o gratuite).
Quanto pesano queste risorse naturali nel PIL? Sarà un caso che nelle prime dieci posizioni della classifica del PIL pro capite troviamo tanti paesi produttori di petrolio come il Qatar, il Kuwait, gli Emirati, il Brunei, e appunto la Norvegia e gli Stati Uniti?

4 commenti:

  1. Ultimamente sto studiando e provando a ragionare su quello che tu chiami "il rapporto tra informazione e democrazia" che tu dici c'è e c'è sempre stato, e "un qualche rapporto tra biblioteche pubbliche e cittadini informati e che ragionano (direi più istruiti che informati)." Anche in relazione ad altre cose che hai scritto in merito al rapporto tra lettura e provenienza familiare (in particolare numero di libri presenti nell'ambiente familiare) e tra lettura e scuola, mi chiedo se il rapporto tra biblioteca pubblica e cittadino istruito non si realizzi in una direzione inversa a quella a cui siamo di solito stati abituati a pensare. Cioè non è che la biblioteca pubblica produce cittadini informati e che ragionano (o istruiti), ma sono i cittadini informati e che ragionano che usano la biblioteca pubblica (e al limite così diventano ancora più informati e istruiti ecc. In fondo la biblioteca pubblica non è la famiglia (che ci capita), non è la scuola (che è obbligatoria), bensì è una possibilità che viene scelta in modo del tutto volontario. E per sceglierla in qualche modo bisogna essere sensibili a quel mondo. Che ne pensi?

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  2. Sono d'accordo, è un'osservazione molto convincente. Tuttavia proverei a porre almeno due domande.
    1) siamo sicuri che non ci sia una domanda qualificata insoddisfatta? Per qualificata, intendo di persone interessate a conoscere, capire meglio, approfondire. Per insoddisfatta, intendo che le testimonianze private (diari, carteggi, ecc., e spesso anche conversazioni casuali) sono ricche di osservazioni riguardo all'insufficienza delle biblioteche per soddisfare interessi non banali. Non ipotizzo che questa domanda insoddisfatta raggiunga grandi numeri (mi sembra improbabile), ma ritengo che possa avere grande importanza anche se i numeri sono piccoli (per la ricaduta sulla società, e anche sull'advocacy delle biblioteche).
    2) siamo sicuri che non si possa stimolare altra domanda qualificata? Ossia, p.es., offrire in evidenza materiale qualificato per conoscere meglio problemi attuali, filoni letterari poco noti, ecc. Ma anche nel lavoro con le scuole, p.es., si puo' enfatizzare certi usi della biblioteca, oppure enfatizzarne altri. Si possono dedicare (più) risorse umane a fare certe cose, o (meno) a farne altre.
    Si pone sempre, ovviamente, un problema qualità/quantità: è probabile, infatti, che un libro di qualità sul tema del riscaldamento globale del pianeta circoli mediamente meno di Dan Brown o Fabio Volo.
    E allora? Su che terreno vogliamo competere, come biblioteche, e affermare un nostro ruolo?
    Se sul terreno delle centinaia di migliaia di ingressi (non si sa a fare cosa), mi pare - al di là di ogni altra considerazione e almeno in Italia - che questo voglia dire puntare a perdere. Non si riesce, di fatto, a raggiungere una dimensione di utenza analoga a quella dei lettori di libri (che saranno anche pochi, rispetto agli altri paesi avanzati, ma sono una minoranza più numerosa e vitale degli utenti delle biblioteche).
    Se facciamo una comparazione storica, un servizio più qualificato (anche se più ristretto) ha spesso comportato una maggiore attenzione alle biblioteche, p.es. da parte degli enti locali.
    Se guardiamo a quello che succede nei maggiori paesi europei, c'è motivo di pensare che le biblioteche pubbliche stiano perdendo non solo una quota dei loro utenti, ma soprattutto fasce più qualificate di lettori, ovvero stiano impoverendo il loro pubblico non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.
    In altri tipi di biblioteche, il fenomeno p.es. è palese da molto tempo nelle biblioteche statali. Chi le frequenta abitualmente (o ci lavora) può cogliere con evidenza come il pubblico si modifichi nella sua composizione (p.es. io ricordo benissimo il fenomeno nella biblioteca di Genova in cui ho lavorato e conoscevo personalmente gran parte dell'utenza più qualificata; il fenomeno si vedeva altrettanto bene nei periodi in cui l'ho di nuovo frequentata spesso come utente).
    Naturalmente un servizio bibliotecario pubblico deve sempre essere equilibrato, come dicono i vecchi manuali, ma l'equilibrio mi sembra che si sia spostato via via più lontano dalla qualità, e che sia una scelta perdente (oltre che poco sensibile ai problemi della democrazia e dello sviluppo sociale).

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    1. (En passant, bella la recensione di Ken Loach, e molto in-topic anche per le biblioteche)

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  3. Sul "Sole 24 ore" di oggi c'è un interessante commento di Luca Ricolfi alle elezioni americane (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-11-13/in-quel-voto-liberatorio-waterloo-politicamente-corretto-102134.shtml?)
    Fornisce alcuni dati, che mettono in discussione le letture più "semplificatorie" della divisione dell'America:
    "Se si trascurano alcune categorie nettamente pro-Hillary (donne nere e ispaniche) quel che colpisce è la trasversalità, socio-demografica e di classe, del voto a Trump. Il voto a Trump supera il 40% in tutte le fasce di reddito, senza grandi differenze fra ricchi e poveri. Le differenze fra istruiti e non istruiti, fra donne e uomini, giovani e vecchi ci sono, ma non sono mai grandissime. Anche le categorie spesso dipinte come sostenitrici di Hillary e ostili a Trump, forniscono un supporto elettorale tutt’altro che residuale a Trump: le donne che lo votano sono il 42% (54% per Hillary), i laureati il 45% (49% per Hillary), i giovani il 37% (55% per Hillary). E persino fra gli ispanici, il voto a Trump sfiora il 30%.".
    Se i dati sono attendibili (sul livello d'istruzione ne avevo visti di differenti) questo ci dice che anche la statistica tende a diventare un po' più "liquida", ossia con associazioni meno forti di quanto avvenisse in passato: potrebbe dipendere soprattutto da una "pluralità" di appartenenze o interessi (di issues, da tempo entrate di peso in politica, e di gusti), cosicché alcuni tratti tirano da una parte e altri dall'altra. Per gli ispanici, è stata avanzata anche l'ipotesi di comportamenti che potremmo dire opportunistici: votano, naturalmente, gli ispanici con cittadinanza, che possono ritenere conveniente la limitazione di nuova immigrazione, se non altro per evitare un aggravamento della tensione che si ritorcerebbe in concreto su di loro.
    Un altro elemento che Ricolfi segnala, a ragione, è "l’incapacità dei democratici di mantenere la promessa di ridurre le diseguaglianze, che sono anzi leggermente aumentate durante gli otto anni della presidenza Obama": enfatizzare un tema ma poi non riuscire a intervenirvi diventa "un boomerang politico".
    Altro fattore, secondo lui forse più importante, è l'eccesso del "politicamente corretto", e cita a questo proposito la dichiarazione di un sostenitore di Trump: “loro adesso la smetteranno di chiamarci ignoranti, bigotti, razzisti, sessisti”.
    Affermazione un po' sinistra, almeno al mio orecchio (frasi di questo tipo accompagnano spesso forme di violenza con cui appunto si "mette a tacere" chi dice cose che uno non vuol sentire).
    Se avete un orecchio diverso, non importa: ma il problema è che - qualunque opinione anche pessima si voglia avere sul "politicamente corretto" - non è che sdoganando l'ignoranza, il bigottismo, il razzismo o il sessismo, questi smettono di essere quello che sono. Vanno contrastati in un altro modo? Può darsi, anzi è probabilissimo. Oppure si vuole dire che non esistono? O che esistono ma vanno bene? Che non esistono, non ci crede nessuno. Allora vanno bene?
    Il consesso delle persone civili, che Ricolfi sfotte un po', "negli ultimi anni aveva finito per diventare un po’ troppo esclusivo", come fosse un club, oppure sta diventando un po' troppo ristretto, cosa di cui c'è da preoccuparsi?

    A parte le polemiche, mi sembra un grosso errore di lettura della società di oggi (quella che si vede andando in giro, guardando e sentendo cosa fanno le persone, ecc.) quello di far caso ad esagerazioni e microquestioni un po' ridicole, che riguardano comunque piccolissime minoranze forse troppo "politicamente corrette", invece di vedere le dosi massicce e ordinarie di risentimento, menefreghismo, aggressività gratuita, egoismo rancoroso, voglia di non sapere e non pensare, disprezzo degli altri, che montano, secondo me, a vista d'occhio (e vengono coltivate, in vario modo, non solo dai politici peggiori).

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